venerdì 17 maggio 2024

Spirito mistico

 NAPOLI, 11 maggio 2024 - Conquista ed ipnotizza il San Carlo Barbara Hannigan; e con un programma non popolare, di quelli che, spesso con superficialità e prevenzione, si tacciano come “ostici”. Eppure la Hannigan, con l’apporto decisivo e determinante dell’ottimo Bertrand Chamayou al pianoforte, grazie al suo magnetismo, all’innata e strabordante musicalità impiega pochi minuti per ottenere, a composizione non ancora conclusa, il primo caloroso applauso.

Si incomincia infatti con ciclo dei Chants de Terre et de Ciel di Olivier Messiaen, del 1938: composizione grondante di profonda e genuina religiosità, nella quale - l’opera si compone di sei canti - Olivier Messiaen specchia le proprie intime emozioni legate alla gioia della paternità, dell’amore per la sua donna: ma sono il misticismo e la fede, filo conduttore e comune denominatore dei Chants, come evidenziato approfonditamente nel saggio di Dario Ascoli contenuto nel programma di sala, ad identificare la cifra connotativa della composizione. Il cattolicesimo di Olivier Messiaen è autentico e convinto: è l’autore, è noto, di una delle opere più intense e sentite degli ultimi decenni del Novecento, Saint François d'Assise, del 1983.Chants de Terre et de Ciel è partitura improntata a profonda spiritualità.

In questo magma sconcertante di parole, emozioni, misticismo, fede, ricordi, sensazioni, Barbara Hannigan si immerge, è proprio il caso di dire, con voce e corpo: canta, interpreta e “dirige se stessa”, tanto è evidente all’occhio il coinvolgimento e la compenetrazione della sua figura con il suo canto. La Hannigan, soprano raffinato e carismatico, interprete di riferimento della musica novecentesca e contemporanea, si affianca alla Hannigan direttrice d’orchestra: i suoi movimenti, perfettamente calibrati sul ductus del canto, rafforzano un’espressività vocale che indaga e dà suono ed emozione ad ogni cellula musicale.

Attenzione spasmodica ad ogni inflessione del testo francese e ad ogni accento, immersione totalizzante nello spirito, così complesso e vario, della composizione, unito alle indubbie doti vocali del soprano canadese - che, grazie al dominio tecnico, riesce a trattare la propria voce come uno strumento - rendono questa interpretazione dei Chants de Terre et de Ciel memorabile e carismatica. All’ottimo pianista Bertrand Chamayou va riconosciuto il merito, tutt’altro che secondario, di aver saputo dipingere per ciascun chant l’atmosfera sonora più adeguata e vicina alle intenzioni espressive della Hannigan.

Chamayou ha tocco nitido, sonoro, perfettamente timbrato, un’ampia gamma dinamica, denota spiccata aderenza stilistica: caratteristiche che si apprezzano ancor più nei successivi Poème-nocturne e Vers la flamme, composizioni pianistiche di Aleksandr Skrjabin dall’intensità rovente, nelle quali domina il cromatismo e una ricerca di un’espressività armonica seppur ancorata alla banchina della tonalità: di questi empito innovativo e dell’inteso lirismo dei due brani è magnifico interprete Bertrand Chamayou: le due pagine di Skrjabin diventano il canale emotivo attraverso il quale traghettare il pubblico verso l’ultima parte del recital (che viene eseguito senza interruzioni), Jumalattaret (del 2019) di John Zorn, compositore newyorkese nato nel 1953.

Jumalattaret, ciclo di canzoni in onore di nove divinità finlandesi dello sciamanesimo dei Sami, ha ottenuto il Premio Abbiati 2023 quale “Novità per l'Italia”: composizione indubbiamente accattivante per il pot-pourri digeneri musicali (vi si ascoltano echi di jazz, folk, minimalismo, ecc.), che strizza l’occhio al pubblico; dopo l’ascolto, tuttavia, resta il dubbio su quanto possa essere definito davvero “nuovo” questo ciclo: certo sperimentalismo vocale, che costituisce l’ossatura della composizione, è evocazione di ben più ardite innovazioni musicali già tentate, con esiti più interessanti, nella seconda metà nel secolo scorso. Tra sussurri, gorgheggi, spasimi, vocalizzi, sperimentalismo sonoro pianistico (anche questo già udito, in verità), John Zorn tiene saldo il collegamento con la tradizione melodica, tenuta in vita soprattutto dal ripetere di semplici schemi melodici affidati al pianoforte, qui strumento deputato a creare estatiche atmosfere sonore.

Jumalattaret è composizione concepita e scritta per le doti tecniche ed espressive della vocalità di Barbara Hannigan, che qui trova la possibilità di stupire e incantare con un uso ardito del proprio strumento-voce: sospira, geme, vocalizza, declama, sibila, sussurra in un saggio stupefacente di tecnica vocale. Ma la Hannigan artista è presente, con quel binomio perfetto di voce e corpo al quale si è accennato in apertura, in ogni piega della composizione, perfettamente coadiuvata nella ricerca ossessiva di suoni e sonorità insolite e percussive, pur al netto di un diffuso déjà vu, dal pianoforte di Bertrand Chamayou.

Successo convinto e caloroso da parte del pubblico per uno dei concerti più interessanti e “spiazzanti” degli ultimi anni.

Barbara Hannigan tornerà prestissimo sul palcoscenico del San Carlo: dal 24 al 30 maggio vestirà i panni di Elle nella Voix humaine di Francis Poulenc, che sarà preceduta dal Castello di Barbablù di Béla Bartók il cui cast schiera un’altra primadonna dei nostri giorni, Elīna Garanča.

Pubblicato in: https://www.apemusicale.it/joomla/it/recensioni/80-concerti-2024/15378-napoli-concerto-hannigan-chamayou-11-05-2024

lunedì 29 aprile 2024

Tradizione con sorpresa

 SALERNO, 26 aprile 2024 - Nell’anno in cui il mondo dell’opera celebra il primo centenario della scomparsa di Giacomo Puccini (il prossimo 29 novembre) il Teatro Giuseppe Verdi di Salerno sceglie di inaugurare la stagione lirica, di balletto e di concerti 2024 con La bohème. È una produzione che può vantare vari punti di interesse, a cominciare dalla direzione di Daniel Oren, direttore artistico al Verdi, e dalla presenza di Mariangela Sicilia nei panni della sartina Mimì, fresca di debutto, con annesso successo personale, al Teatro alla Scala come Magda della Rondine pucciniana; e dalla medesima produzione scaligera proviene anche Giovanni Sala, poeta Prunier a Milano, poeta Rodolfo a Salerno.

Daniel Oren dirige da par suo: grande attenzione al rapporto tra orchestra e cantanti; malgrado qualche insolita imprecisione (soprattutto nel Quadro II) fra buca e palco, quella di Oren è una concertazione che procede fluida, perfettamente aderente allo sviluppo drammatico delle vicende di amore, gelosia, inesorabile scorrere del tempo e morte degli squattrinati bohémiens parigini.

Il direttore appresta per gli interpreti sempre un adeguato tappeto sonoro sul quale possono adagiare la voce. Encomiabile e da ricordare, giusto per citare un esempio, è la preparazione orchestrale che precede “Ma quando vien lo sgelo”Giusta tensione e coesione drammatica, che, unita a bei colori strumentali e passionalità, forniscono una lettura convincente e, soprattutto nel Quadro III, avvincente e travolgente, malgrado alcune “incomprensioni” tra buca e palcoscenico.

Buona nel complesso la resa dell’Orchestra Filarmonica Giuseppe Verdi di Salerno che risponde con ricchezza di colori e con buona articolazione interna al gesto imperioso e “sonoro” di Oren. Accettabile, seppur con alcune ruvidezze e imprecisioni da smussare (carrettieri, lattivendole e spazzini del Quadro III), la prova del Coro del Teatro dell’Opera di Salerno istruito da Francesco Aliberti. Bello il colore, buona la compattezza e lodevole l’entusiasmo del Coro di voci bianche del Teatro Giuseppe Verdi guidato da Silvana Noschese.

Il cast vocale è dominato da Mariangela Sicilia, la quale dopo La bohème bolognese del 2018 diretta da Michele Mariotti e firmata per la regia dal compianto Graham Vick ( leggi la recensione) può dirsi a buon diritto una delle Mimì di riferimento dei nostri giorni. E a Salerno sfoggia una linea vocale raffinata e tornita, bel timbro, ottima proiezione e volume, forse, per le ridotte dimensioni del Teatro Verdi, tendenzialmente fin troppo poderoso; ad ogni modo, l’ottima tecnica le consente di alleggerire l’emissione, di sfoggiare un buon legato e di cesellare con attenzione le frasi in “Donde lieta uscì”. La sua Mimì cresce nel corso della serata: se nel Quadro I Mariangela Sicilia appare più attenta ad essere corretta e precisa, nel III Quadro dà corpo, ma soprattutto anima, ad una donna innamorata, fragile e minata nella salute. È, poi, quasi evanescente, votata ad una consapevole fine nello straziante ultimo Quadro.

La Musetta di Sabina Puértolas si impone più per la presenza scenica e le buone doti di attrice che per l’organizzazione vocale, affetta da un timbro invero alquanto aspro e una linea di canto che tende a rendere striduli e prosciugati i suoni nel registro acuto; il valzer è risolto con professionalità grazie alle sue qualità sceniche.

Giovanni Sala dà a Rodoldo un timbro suggestivo per bellezza, dizione scolpita e linea vocale corretta. Anche la sua prestazione è in crescendo: appare preciso ma abbastanza intimorito in “Che gelida manina”, pur affrontata con vocalità generosa e ampia. In relazione alla ridotta cubatura del Teatro Verdi di Salerno, la vocalità di Sala ha il giusto peso specifico: probabilmente in una sala più ampia, il suo attuale assetto vocale, in Rodolfo, soffrirebbe un po’, ma qui al Verdi la voce “viaggia” bene e risulta omogenea. Nel Quadro III, ad avviso di chi scrive, abbiamo il migliore momento del suo raffinato e convincente Rodolfo.

Non risulta purtroppo nel complesso precisa la linea di canto del Marcello di Mario Cassi, affetta anche da una fonazione talora troppo forzata e un’emissione alquanto monolitica, poco incline ad assottigliamenti; la figura del simpatico pittore è comunque nel complesso delineata discretamente grazie alla appropriata presenza scenica.

Convincente, preciso e dal bel colore vocale è Biagio Pizzuti come Schaunard.

Qualche cavernosità di troppo, invece, si riscontra nella linea vocale, non sempre esente da imprecisioni, del Colline di Carlo Striuli, nel complesso affidabile professionista di stanza al Teatro Verdi di Salerno.

Angelo Nardinocchi è raffinato e abile cantante-attore caratterista nella duplice veste di Benoît e Alcindoro. Eccellenti e ben inserite nello spettacolo le parti secondarie, a cominciare dal Parpignol di Paolo Gloriante, per poi proseguire con il Sergente dei doganieri di Antonio Cappetta e il Doganiere di Alessandro Menduto.

Infine, improntato a una narrazione che ripercorre sostanzialmente la drammaturgia dell’opera di Illica, Giacosa e Puccini è lo spettacolo firmato per la regia da Plamen Kartaloff, sovrintendente del Teatro dell’Opera Nazionale di Sofia e reduce dal recente successo al Verdi di Salerno in Aida (leggi la recensione ).

Grazie alle scene al tempo stesso realistiche ed evocative, costruite con la consueta cura artigiana e i bei costumi - il tutto firmato dall’esperto Alfredo Troisi - l’azione è spostata nella Parigi liberty (chiaro indice la tettoia in stile floreale del Café Momus); Plamen Kartaloff racconta, attraverso movimenti scenici curati e ben calibrati in relazione al ridotto spazio del palcoscenico del teatro Verdi, il naufragio di sogni e illusioni di una generazione di idealisti, divorati dall’inesorabile scorrere dal tempo.

Lo spettacolo procede fluido, coerente sino all’anodino finale: sugli ultimi strazianti accordi della Bohème, si assiste a una repentina quanto inverosimile “resurrezione” di Mimì: la ragazza si alza dal proprio capezzale e con passo svelto afferra la candela, risale per la scala che l’aveva vista entrare al Quadro I e guadagna rapidamente l’uscita. Un percorso au contraire per chiudere la perfetta circolarità della Bohème? Un’allusione alla circolarità e alla fugacità della vita? Mah..

La trovata, vanificando l’intensa drammaticità musicale delle ultime battute della Bohème, lascia francamente molto perplessi, anche perché non consequenzialecon l’impostazione teatrale, coerente e aderente alla drammaturgia originaria, seguita dal regista.

Al termine la sala del Verdi tributa un successo convinto e prolungati applausi per tutti gli artefici di questo spettacolo, buon viatico per la stagione in corso che proseguirà, i prossimi 17 e 19 maggio, con l’attesa Italiana in Algeri.

Pubblicato in: https://www.apemusicale.it/joomla/it/recensioni/81-opera/opera-2024/15349-salerno-la-boheme-26-04-2024

giovedì 18 aprile 2024

Non solo stelle

 NAPOLI 17 aprile 2024 - Due cast per La Gioconda, probabilmente la produzione più attesa e di maggior richiamo della Stagione lirica e di balletto 2023 – 2024 napoletana: al Teatro San Carlo i melomani, richiamati dal titolo operistico, dai nomi di Anna Netrebko, Jonas Kaufmann e Ludovic Tézier, sono accorsi da molti paesi europei e da varie regioni d’Italia. Della rappresentazione del 10 aprile, una delle quattro date che ha visto schierato il cast all stars, si è ampiamente riferito qui.

L’ingente sforzo produttivo del San Carlo - La Gioconda è opera che richiede almeno ben cinque protagonisti di rilievo, impegni notevoli per Coro, Orchestra e Corpo di ballo - va esaminato anche con riferimento al cast alternativo, il quale ha consentito di far alzare il sipario per ben sette rappresentazioni, e per tre volte in due giorni consecutivi.

Qui, senza fare alcun paragone con quanto ascoltato e recensito il giorno 10 aprile, riavvicinandosi a questa produzione liberi dalle impressioni del primo ascolto, si prova a formulare delle considerazioni sui protagonisti del cast alternativo. I cambiamenti di cast hanno interessato le sole parti di Gioconda, Laura Adorno, Enzo Grimaldo e Barnaba; invariate le altre, per le quali si conferma quanto già scritto (leggi la recensione). Nel complesso si attestano allo stesso livello qualitativo del 10 aprile le eccellenti prove di Orchestra, Coro e Corpo di ballo; convincente e concreta la concertazione, a tratti turgida e potente, di Pinchas Steinberg.

Lianna Haroutounian, nelle vesti vocali poco comode di Gioconda, è una cantante che “porta a casa la parte”: se il soprano armeno non riesce a dominare del tutto la diabolica tessitura di Gioconda, almeno riesce a non uscirne con ossa (e voce) rotte. Purtroppo il registro grave, così sollecitato in quest'opera, non è pieno e sonoro come dovrebbe, ma gli acuti, per quanto non sempre rotondi e smussati, non mancano all’appello. Tuttavia, la linea di canto della Haroutounian è imperniata su un’emissione sempre spiegata, sul forte: pochi alleggerimenti dell’emissione, poco legato, poche le sfumature, caratteristiche che danno vita a una Gioconda interpretativamente alquanto monocorde, benché sia innegabile che la Haroutounian sia un’eccellente professionista, la quale, nel complesso, fornisce una prova dignitosa.

Anna Maria Chiuri, come Laura Adorno, denota una vocalità dapprima non del tutto adeguata, per peso specifico vocale e volume, alla parte: appare troppo timorosa e poco a fuoco nella sortita dell’atto I. La linea di canto denota qualche incertezza allorquando la tessitura si fa più impervia e acuta. L’interpretazione appare talora rispecchiare le insicurezze vocali, delineando di conseguenza una Laura remissiva, sulla difensiva, poco incline a scontrarsi con l’ardore e la complessità del personaggio di Gioconda.

L’Enzo Grimaldo di Angelo Villari colpisce sin dall’irruzione in scena con “Assassini! Quel crin venerando” per potenza, squillo e bel timbro. La linea di canto, però, seppur fondata su mezzi vocali ragguardevoli, contempla poche sfumature: abbonda di accenti tribunizi, l’emissione è impostata sul forte e fortissimo; qualche mezza voce non manca, ma il suo “Cielo e mar!”è affrontato con stile stentoreo, poco credibile per essere il trepido vagheggiamento della donna amata.

È tutta l’interpretazione di Villari a fondarsi sullo sfoggio di un bel timbro e di una vocalità florida, munita di acuti smaglianti; a farne le spese, ovviamente, è il lirismo della parte del principe genovese proscritto dalla Serenissima.

Convince per la perfetta dizione, il bel timbro, la solida linea vocale e il fraseggio, il Barnaba di Ernesto Petti: al timbro brunito unisce spiccate doti di interprete. Il personaggio di Petti è una spia torva, con accenti e forzature - soprattutto nel finale dell’atto IV - forse eccessivamente truculenti, da smussare nelle future riprese della parte.

Al termine, in continuità con il grande successo ottenuto da Gioconda lo scorso 10 aprile, dalla sala gremita del San Carlo applausi prolungati e calorosissimi per tutti.

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venerdì 12 aprile 2024

La danza delle voci

 Napoli, 10 aprile 2024 - La più attesa delle produzioni della stagione lirica 2023 - 2024 del Teatro San Carlo, La Gioconda, non tradisce le aspettative della vigilia: cast di nomi stellari della lirica contemporanea, titolo assente dal palcoscenico napoletano dal lontano 1977: gli ingredienti per dar vita all’evento dunque ci sono.

Opera di quelle che un tempo si classificavano “per grandi voci”, La Gioconda, è un melodramma arzigogolato, iperbolico per taluni aspetti, in cui l’elemento canoro è al cubo per quasi tutti i protagonisti; La Gioconda, se non è opera tanto raffinata nella costruzione musicale, è sicuramente, per le tinte forti che la connotano e per lo spiccato melodismo di Ponchielli, drammone musicale accattivante e fascinoso.

Il libretto di Tobia Gorrio (Arrigo Boito), poi, fornisce al compositore l’occasione per creare una potente incarnazione del male, Barnaba, ascendente di Paolo Albiani e di Jago: senza dubbio, Verdi e Boito avranno ben altra raffinatezza di cesello musicale e psicologico, ma uno degli archetipi di quelle scultoree incarnazioni di perfidia è da individuare proprio in quest'opera, da non sottovalutare per gli sviluppi del melodramma della seconda metà dell’Ottocento.

La Gioconda esiste e si regge in piedi se ben fondata su possenti ugole dei cantanti: basta uno sguardo allo spartito per rendersi conto delle insidie delle parti vocali dei protagonisti, a cominciare da quella della cantatrice protagonista. L’attesa, dopo quarantasette anni, era riposta nel cast: Anna Netrebko, Jonas Kaufmann e Ludovic Tézier, rispettivamente per Gioconda, Enzo Grimaldo e Barnaba, costituiscono un terzetto di star liriche dei nostri giorni; accanto a loro era prevista Anita Rachvelishvili, la quale, dopo il forfait - le auguriamo di ritrovare al più presto la forma vocale -, è stata sostituita da Eve Maud Hubeaux, che ha vestito i panni di Laura Adorno fino a poche settimane fa a Salisburgo, dividendo il palcoscenico del Grosses Festspielhaus sempre con Netrebko e Kaufmann.

Inutile negarlo, l’attesa era soprattutto per la primadonna, al suo debutto italiano nella parte. Poco prima della rappresentazione si sussurra in teatro che il soprano russo sia febbricitante; come spiegherà lei stessa tramite un post pubblicato nella notte su Instagram, ha preferito, per rispetto al pubblico, non cancellare la performance e non far annunciare l’indisposizione. Ma apre bocca ed è subito Anna Netrebko: si è travolti dalla malia del timbro, dal flusso omogeneo e solido di voce, ben appoggiata sul fiato. Impressiona la sua capacità di sfumare, di alleggerire l’emissione capace di rendersi possente e prorompente. Quando la scrittura si addentra nelle registro grave, la voce mantiene compattezza e si oscura, con colori da mezzosoprano, conservando inalterato il proprio peso specifico. Se c’è una caratteristica tecnica da elogiare di questa prova è l’omogeneità vocale lungo tutta la tessitura: tanto luminosi squillanti gli acuti, quanto possenti e scuri i suoni gravi.

Quella di Anna Netrebko è una prestazione in crescendo: le basta poco tempo per mettere a fuoco una vocalità che si arroventa negli accenti e si illanguidisce negli abbandoni lirici. Della febbre, che avrebbe quasi messo in forse la partecipazione alla recita, non si individua traccia. In “Suicidio!” – la Netrebko ha dichiarato su Instagram di aver perso la voce all’inizio del quarto atto – impressiona per la potenza della cavata, per l’intensità dell’interpretazione, per la capacità di assottigliare l’emissione, malgrado la presenza di qualche suono più velato del solito.

A convincere e stupire, però, non sono soltanto la forma vocale. Lodare il rigoglio dei mezzi vocali, la perizia tecnica – che le ha consentito di superare il malessere febbrile – sarebbe limitativo: Netrebko si impone perché dà corpo, voce e anima alla complessa psicologia di Gioconda. Grazie anche a spiccate doti sceniche, all’innato fascino e avvenenza, scolpisce una donna oppressa, innamorata, delusa, vendicativa, perfida, e infine eroica. Una scultura levigata di una delle più iconiche e complesse eroine melodrammatiche dell’Ottocento. Si ha la sensazione che in questa Gioconda, ancor più che in altre figure finora interpretate, Anna Netrebko si sia immedesimata con maggior intensità: la varietà di accenti al fraseggio, la veemenza di talune accensioni, il lirismo di molte frasi denotano uno studio approfondito e accurato della psicologia della cantatrice veneziana.

Da ascoltare e da riascoltare Anna Netrebko in Gioconda, perché, senza dubbio, è un’eroina che sarà ancor più interiorizzata e approfondita dal grande soprano russo, con esiti ancor più lusinghieri di quelli già elevati raggiunti al debutto.

Seguiamo, come sempre, l’ordine di locandina, per scrivere della Laura Adorno di Eve Maud Hubeaux, poco convincente. Non mostra di possedere le note basse sicure e decise che pur la scrittura richiede; il timbro è alquanto chiaro; gli acuti non ben definiti; la linea di canto non sempre corretta; la moglie di Alvise Badoero, di conseguenza, solo abbozzata. Hubeaux appare troppo concentrata nel tener insieme la propria vocalità più che nel rendere convincente e realistico il proprio complesso personaggio.

Il Badoero di Alexander Köpeczi sfoggia buon volume e timbro alquanto suggestivo nella propria brunitura, sebbene il canto sia affetto da qualche forzatura di troppo; l’interprete nel complesso è convincente.

Voce dall’ampio volume e dal timbro molto scuro ha la Cieca di Kseniia Nikolaieva, la quale però sconta un’emissione che incrina la correttezza e la fluidità della linea vocale. Nel complesso la sua figura, al quale la regia affida un’improbabile apparizione post mortem, convince sul piano scenico e musicale.

L’altro divo di questa Gioconda è Jonas Kaufmann. Purtroppo il tenore tedesco è in forma alquanto problematica: la voce si è prosciugata, ha perso squillo e proiezione, è inaridita nei colori. Dispiace constatare che denoti evidentissimi problemi di fonazione, sia nel declamato, sia nel legato, afflitto da fiati sempre più corti. Si ha la sensazione che la sua emissione, da sempre non ortodossa, ma personale, oggi gli stia chiedendo di saldare il conto, proprio nel momento in cui il sostegno dell’apparato vocale non è (né può essere altrimenti) quello di anni addietro; e dispiace sinceramente ascoltare suoni opachi, qualche nota sporca e incerta, perché l’artista ha intelligenza e musicalità da vendere. Infatti, Jonas Kaufmann prova a supplire ai limiti di una vocalità alquanto bolsa con le suggestive mezzevoci (molto spesso in falsetto) e con le personalissime sfumature. Enzo Grimaldo, però, è parte che richiede organizzazione vocale in buone/perfette condizioni e tanto, tanto fiato.

Quella stessa intelligenza musicale, che ha consentito a Kaufmann di rendere accattivanti e meditati i personaggi che ha finora interpretato, oggi dovrebbe suggerirgli di percorrere strade più confacenti alle caratteristiche attuali della sua vocalità, di addentrarsi in un repertorio nel quale, per intelligenza e acume interpretativo, avrebbe ben poca concorrenza e rivali.

Tornando al presente, la sensazione che Enzo Grimaldo sia parte al di sopra delle possibilità vocali di Kaufmann si rafforza nel corso dell’opera; anzi, per la stima e ammirazione che si nutrono da sempre per l’artista, si soffre con e per lui nell’ascoltare suoni emessi a fatica, sforzati e privi di colore.

Ludovic Tézier, nei panni mefistofelici di Barnaba, è, insieme ad Anna Netrebko, il secondo fenomeno vocale e interpretativo di questa serata. Con il suo bellissimo timbro, la ricchezza di armonici, il grande volume (in crescita nel corso della serata), Tézier, tipico baritono grand seigneur, scolpisce una figura monumentale per la sontuosa rappresentazione della sua cattiveria: si percepisce un’attenzione maniacale per il colore di ogni singola inflessione, per il suono, grazie alla perfetta dizione italiana, di ogni singola parola. Il Barnaba di Tézier è un’incarnazione del male che però non rinuncia a signorilità: gli accenti truculenti insiti nella scrittura sono smussati, l’interpretazione si fonda sul culto del bel e ben cantare, dello sfoggiare una vocalità robusta e suoni sempre proiettati. Si ritrova, allora, tutta la melliflua perfidia dei suoi Jago e Scarpia e la nobiltà dei suoi Rigoletto e Simone: “O monumento!” e “Pescator, affonda l'esca” sono tra i momenti più fulgidi di una interpretazioni di riferimento.

Nei ruoli secondari si distinguono per precisione e perfetta integrazione con i protagonisti Lorenzo Mazzucchelli, che interpreta Zuàne, un cantore e un pilota, Roberto Covatta, Isèpo, e Giuseppe Todisco, un barnabotto.

Sul podio ritroviamo finalmente, dopo gli ultimi tre esiti operistici molto deludenti dei Vespri siciliani, di Don Giovanni Giovanni e Norma, un signor direttore. La concertazione di Pinchas Steinberg, pur non contraddistinta da sfoggio di fantasia ed estro, è di quelle che assicurano solidità, correttezza e alta professionalità a tutto lo spettacolo. A Steinberg si potranno rimproverare talune pesantezze agogiche di troppo, ma l’esperto direttore israeliano ha il merito di metter in risalto il tessuto orchestrale della Gioconda, la maestosità dei concertati, la teatralità di certe scene. E poi, aspetto da non sottovalutare, Pinchas Steinberg, profondo conoscitore dei complessi meccanismi orchestrali, riesce a donare smalto alla compagine orchestrale del San Carlo, per troppo tempo quasi mortificata da bacchette non all’altezza del suo potenziale tecnico: si ascolta un suono molto ben curato, un’articolazione complessiva ben calibrata, prime parti pregevoli (a cominciare da quella del clarinetto di Luca Sartori e dal violoncello di Alberto Senatore). Una prova strumentale, dunque, pienamente superata e convincente.

Fa molto bene anche il Coro diretto da Fabrizio Cassi: da mesi si assiste alla crescita della compagine dopo il momentaneo smarrimento imputabile, probabilmente, alla sostituzione della guida. Nella Gioconda, al netto di qualche imprecisione e incomprensione con la buca e di qualche suono forzato, si ascolta un un suono rotondo, pieno e idiomatico, ricco di sfumature. Molto ben eseguiti, nel loro colore pastello, gli interventi fuori scena. Il Coro è uno dei protagonisti di Gioconda, e stasera ha giocato egregiamente un ruolo di prim’ordine.

Meritano sincero apprezzamento per l’ottima esecuzione, per l’entusiasmo evidente di tutti i bambini, le ottime Voci Bianche del Teatro di San Carlo, istruite e guidate dall'espertissima Stefania Rinaldi.

La Gioconda strizza l’occhio al grand opera: il Balletto del San Carlo, guidato da Clotilde Vayer, è chiamato ad animare la pagina più nota dell’opera, la celeberrima Danza delle ore, coreografia di Vincent Chaillet, che mette in scena un duello tra Arlecchino (Salvatore Manzo), Pulcinella (Raffaele Vittozzi) e il Diavolo (Giuseppe Ciccarelli).

Last but not least, lo spettacolo. Come detto in apertura, si è scelto di iniziare queste riflessioni su questa Gioconda partendo dalle voci e dall’aspetto musicale, ritenendo, a torto o a ragione, il capolavoro di Amilcare Ponchielli opera fondata sulle voci. A contribuire al successo finale di questa produzione concorre, comunque, in misura determinante anche lo spettacolo firmato da Romain Gilbert, il quale – con le scene di Etienne Pluss e i magnifici costumi (dalla evidente e squisita cura sartoriale; tutti diversi tra loro anche quelli dei coristi!) di Christian Lacroix, il tutto sapientemente illuminato dal gioco delle luci di Valerio Tiberi – confeziona uno allestimento non calligrafico, che restituisce un’immagine di una Venezia cupa, percorsa da spie, inquisitori, principi con false identità e donne derelitte. Gli elementi iconografici riconducibili alla Serenissima ci sono tutti: la bocca di Leone, la scala che ricorda quella dei Giganti di Palazzo Ducale, le calli cupe della Giudecca, il senso di oppressione e di decadenza che emana la città lagunare del XVII secolo. La regia di Romain Gilbert pur non denotando picchi di fantasia e di inventiva, procede sicura, tendenzialmente ligia al libretto. Stride, però, con la drammaturgia dell’opera il seppellimento, da parte di Alvise Badoero, della moglie fedifraga in una sorta di botola sotto il pavimento della Ca’ d’Oro (non riconoscibile dalle scene, per inciso); Laura, nel finale dell’atto III, è dunque nascosta agli occhi di Enzo Grimaldo: difficile, pertanto, dare un senso logicamente compiuto al concertato “Già ti veggo, immota e smorta” che intona Enzo. In definitiva, si tratta di una produzione che sapientemente elimina dalla Gioconda il superfluo, contribuendo così, ad avviso di chi scrive, a far apprezzare più compiutamente un dramma di per sé ipertrofico nella drammaturgia e nella costruzione musicale.

Il significativo sforzo produttivo della Gioconda è apprezzato e premiato dalla sala gremita del San Carlo con lunghi applausi per le masse artistiche dei Cori e del Balletto. Molto apprezzati tutti i solisti, in particolare Anna Netrebko e Ludovic Téziertrionfatori di questa felice serata teatrale.


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mercoledì 20 marzo 2024

Sinfonico melodrammatico

 NAPOLI, 16 marzo 2024 - Risuonano poderosi e profondi gli accordi iniziali dell’ouverture Egmont di Ludwig van Beethoven che aprono il concerto diretto da Marco Armiliato alla testa dell’Orchestra del Teatro di San Carlo. Tratta dalle musiche di scena composte, tra il 1809 e il 1810, per l’omonima opera teatrale di Johann Wolfgang Goethe,sotto la bacchetta del maestro genovese, corretto e attento a gestire la ordinata e coerente concatenazione dei tempi da Sostenuto, ma non troppo ad Allegro, procede frastagliata da dinamiche ben calibrate che conferiscono forza drammatica, molto “romantica”, alla composizione. Ne risulta un’esecuzione tendenzialmente precisa e sbalzata, una lettura né filologica, né personale, ma che guarda a validissime (e irripetibili) opzioni esecutive del passato. C’è un diffuso senso di “ordinarietà” in ciò che si ascolta ma che comunque non mina la credibilità e la suggestione dell’esecuzione nel suo complesso. Per fortuna un mancato ingresso nel settore dei legni non compromette la tenuta della frase e del dialogo musicale che si apprezza nella parte iniziale della composizione.

Al luminoso e gioioso Allegro finale Marco Armiliato e l’Orchestra del San Carlo giungono dopo aver ben preparato dinamiche e accenti: è una stretta decisa e trionfale, ben evidenziata dal lavoro dei timpani. Sin dalle battute iniziali il complesso partenopeo dà la sensazione di saper rispondere adeguatamente alle sollecitazioni del gesto elegante e chiaro del concertatore (che, per inciso, dirige a memoria durante tutto il concerto). Il suono degli archi è abbellito da un profondo vibrato, quello degli ottoni è caldo, pulito quello dei legni; e, dato non secondario, per tutti i brani in programma stasera, l’organico è composto da un numero adeguato di elementi. In più, l’ascolto si giova, per fortuna, della camera acustica, che ai concerti sinfonici vorremmo vedere sempre troneggiare dietro all’orchestra.

Qualche minuto per portare sul palco il pianoforte e per predisporre un diverso assetto per poi attaccare il Concerto n. 1 in do minore per pianoforte, con accompagnamento di tromba e orchestra d’archi, op. 35 di Dmitri Šostakóvič, composizione, del 1933, dal sapore garbato, scherzoso, perfino, a tratti, scanzonato. Il titolo indica chiaramente l’ordine gerarchico e la preminenza degli strumenti: sul primo gradino, il pianoforte; ex aequo, sul secondo, la tromba e gli archi.

Il giovane pianista Lucas Debargue, dal tocco limpido e dal suono corposo, rotondo e proiettato, dà di questo raffinato divertissement musicale di Šostakóvič una lettura scintillante, molto varia nelle dinamiche: il suo è un approccio, almeno per i tempi estremi Allegro moderato e Allegro con brio, quasi percussivo. Il tocco si fa più leggero e cesellato nel lungo e affascinante Lento del secondo movimento.

Perfetta, per precisione e qualità del suono, è la tromba di Matilda Lloyd: se il compito chw Šostakóvič le assegna nei primi tre movimenti è limitato a sottolineare le inflessioni del discorso musicale, ad accompagnare il pianoforte, con l’irrompere dell’Allegro con brio finale quasi si rovescia il precedente rapporto gerarchico tra i due strumenti. Qui Matilda Lloyd è perfetta nell’esibire tutta la sua perizia tecnica, a sfoggiare un suono caldo e penetrante, a dar risalto allo scintillio della parte affidata alla tromba.

Applausi scroscianti per i due bravissimi concertisti. Regalano un bis, il virtuosistico e brillante Studio da concerto op. 49 per tromba e pianoforte del compositore russo Alexander Goedicke (1877 - 1957).

La seconda parte del concerto è dedicata alla Sinfonian. 4 in la maggiore, op. 90 Italiana (abbozzata nel corso del lungo soggiorno italiano del 1830 - 1831) di Felix Mendelssohn – Bartholdy.

Se la lettura di Armiliato dell’Allegro vivace del primo movimento non appare molto brillante e adeguatamente baciato dalla tersa luce mediterranea, il successivo Andante con moto risuona come un lungo momento di contemplazione, che rimanda, per lo spiccato senso del fraseggio, delle crepuscolari articolazioni melodiche e per il buon equilibrio delle sezioni orchestrali, agli intermezzi operistici, a quella raffinata e complessa articolazione melodica tipica del canto lirico, terreno d’elezione di un direttore esperto, affidabile e talentuoso come Marco Armiliato. È, il secondo movimento, la gemma di questa lettura, che non manca di spunti interessanti. Il terzo, Con modo moderato, funge da perfetta preparazione dell’esplosione di vitalistica e travolgente del SaltarelloPresto, in cui il “romanticismo felice” di Mendelssohn tocca probabilmente la sua acme: qui la bacchetta di Armiliato incendia l’orchestra del San Carlo con un tripudio orgiastico di sonorità scintillanti e ritmo travolgente.

Per Marco Armiliato, l’orchestra del San Carlo e le sue prime parti la sala quasi gremita del San Carlo tributa un meritato e caloroso successo.

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giovedì 14 marzo 2024

Meglio l'oblio

 NAPOLI, 12 marzo 2024 - “Nulla di nuovo sotto…la luna!” è locuzione che può sintetizzare Norma andata in scena al Teatro San Carlo. La produzione del Teatro Real di Madrid, firmata dall'australiano Justin Way, è immersa in un desolante vuoto di idee che si prova a riempire con una tra le più trite tra le trovate registiche, quella del metateatro.

Lo spettacolo di Way - scene di Charles Edwards, costumi di Sue Willmington, luci di Nicolás Fischtel (arredo visivo esteticamente lontanissimo da un canone medio di bellezza), movimenti scenici di Jo Meredith - è di quelli, per la quasi totalità dello spettacolo, privi di reale originalità. Dopo aver visto avvicendamenti di ambientazioni riconducibili a una rappresentazione di Norma nel 1831 (l’impianto scenografico del teatro nel quale si svolge l’opera nell’opera richiama, seppur alla lontana, il Teatro alla Scala, che Norma tenne a battesimo proprio in quell'anno), dopo aver ammirato foreste, rocce, uno studio/ufficio borghese ottocentesco (ah, sì: Norma per il regista è anche una cantante/imprenditrice di quel fatidico 1831; la circostanza, non desumibile dallo spettacolo, la apprendiamo leggendo l’intervista a Way a cura di Lucia Licciardi presente nel programma di sala), solo nel finale fa breccia una trovata che ci desta leggermente dal torpore indotto dal disegno registico: l’involucro teatrale nel quale si svolge Norma è distrutto dalle fiamme;Norma e Pollione si dirigono verso l’edificio divorato dall’incendio; i loro due figli scrutano dal palcoscenico del San Carlo il teatro che rapidamente si distrugge. Tutto qui.

Justin Way suddivide la trama di Norma in una narrazione diacronica, che oscilla tra ambientazioni e riferimenti ottocenteschi (fin troppo lampante è la citazione di Senso di Luchino Visconti, della storia d’amore tra il tenente austriaco Franz Mahler e la contessa veneziana Livia Serpieri) e quelli delle Gallie conquistate dai romani. Uno degli aspetti più interessanti, in chiave risorgimentale e anti austriaca, della drammaturgia di Norma sta nel capovolgimento dei valori operato dal libretto di Felice Romani e dalla musica di Vincenzo Bellini: nel 1831, in un periodo di mitizzazione del classicismo e dell’azione civilizzatrice della romanità, in Norma sono proprio i discendenti di Romolo a non fare bella figura; i “barbari” Galli e Druidi, invece, diventano i custodi di dignità, coraggio e virtù che difettano ai conquistatori romani. Le rilettura di Justin Way parte da questo assunto: i romani/austriaci sono i “cattivi”, i romani/milanesi sono i “buoni”. Dicotomia perfetta. Peccato che questa narrazione, così come quella della rappresentazione di Norma stessa nel teatro ottocentesco, dell’amore di Pollione, qui ufficiale austriaco, per Adalgisa, sia operata con passo lento e incongruente, ricorrendo a una gestualità asfittica e convenzionale: una coltre di sostanziale staticità e di noia trafigge la vitalità dello spettacolo e l’attenzione degli spettatori. Nel ricreare un’ipotetica rappresentazione d'epoca di Norma, le scene si beano di uncalligrafismo di stampo ottocentesco; i costumi vestono i romani come ufficiali dell’esercito austriaco, il coro dei druidi con lunghe tuniche e, tramutatosi in setta di carbonari milanesi, con barbe lunghe e posticce che all’apparire generano qualche accenno di ilarità. In definitiva, quella di Justin Way è una messinscena che vorrebbe essere innovativa (attraverso il ricorso ad un vecchio vecchio espediente) e, al tempo stesso, tradizionalissima nel suo rivolgersi all’Ottocento per il corredo scenografico e di ambientazione. Risultato? Una rivisitazione confusa, banale, dominata dalla staticità e prevedibilità dei movimenti che lentamente conduce tutto in una plaga di tedio.

Non è una serata da ricordare al San Carlo, questa prima rappresentazione di Norma: il versante musicale è purtroppo speculare a quello registico.

La concertazione del responsabile musicale di questa Norma, il direttore Lorenzo Passerini, sin dagli accordi iniziali della Sinfonia non convince. A dispetto del gesto enfatico di Passerini, la sua è una lettura priva di reale tensione drammatica, alla cui assenza nulla suppliscono gli affondi sonori di cui è disseminata l’esecuzione. La scelta di tempi non sempre appare calibrata sulle esigenze del canto, pronta a soccorrere i protagonisti nei momenti di temporanee difficoltà canore. Ma, più in generale, la concertazione di Passerini non sembra riuscire a tenere dritto il timone della rotta dell’orchestra del San Carlo sul canto, a rendere plastica e viva la melodizzazione e l’accompagnamento dei recitativi: troppi pochi colori, troppa poca mobilità di tempi, troppa poca fantasia in questa Norma. L’orchestra del San Carlo è in buona forma, tuttavia non appare, al di là della gestualità fin troppo plateale, realmente stimolata dal direttore: è priva di colori, rivestita e imbrigliata in un completo color grigio fumo di Londra.

Si apprezza il lavoro puntuale e professionale del Coro del San Carlo, guidato da Fabrizio Cassi: una formazione più numerosa sulla scena avrebbe di certo assicurato maggior forza drammatica alle scene corali dell’opera, peraltro risolte egregiamente e con bel colore e compattezza dalla compagine sancarliana.

Neppure il cast vocale, che pure schiera nomi blasonati, riesce a raddrizzare una produzione nata sotto i migliori auspici.

Non convince la Norma di Anna Pirozzi: pur mostrando corredo vocale, peso specifico, fascino e suggestione del timbro vocale adeguati alla parte, sin dal recitativo iniziale (“Sediziose voci”) è troppo attenta e concentrata a rinforzare il già notevole peso delle singole note e poco propensa, invece, ad assicurare una linea conforme ai dettati del purissimo belcanto belliniano. Troppe forzature, poca attenzione al legato e al canto sul fiato, non sempre la rendono fluida e spontanea. Troppe, francamente, le colorature spianate e gli acuti sforzati e affilati nella cabaletta “Ah! Bello a me ritorna”.La prova del sorpano è, comunque, in crescendo: attenuatasi, forse, la comprensibile tensione iniziale, il secondo atto regala pagine affrontate con maggiore rilassatezza e precisione, con maggior cesello nel fraseggio, senza tuttavia, ad avviso di chi scrive, delineare una Norma all’altezza della alte aspettative che il nome della Pirozzi induce a nutrire.

L’Adalgisa, in questa occasione affidata a un mezzosoprano, di Ekaterina Gubanova vanta un timbro brunito, ma un’emissione eccessivamente intubata e diffuse forzature alterano la bellezza dello smalto. Quella della Gubanova è una giovane sacerdotessa nel complesso abbastanza corretta vocalmente e misurata come interprete.

Il Pollione di Freddie De Tommaso è divorato dall’ansia di mostrare i muscoli dei propri mezzi non usuali: questo sfoggio, tuttavia, porta il giovane e talentuoso tenore a gonfiare, senza che se ne avverta il bisogno, i suoni del registro centrale e basso. Il suo stile di canto strizza l’occhio a blasonati e ormai mitici modelli italiani degli anni ’50 e ’60 del secolo scorso: certe inflessioni, accenti e sfumature tradiscono l’ammirazione sconfinata, e giustificabile, per un tipo di tenore che però stile, gusto e, soprattutto, la straordinarietà dei mezzi hanno collocato in un’epoca dell’interpretazione conclusa e consegnata alla storia.

Il rischio, più attuale che potenziale, è che questo modello di vocalità old style possa indurre De Tommaso a sforzare una muscolatura già di per sé notevole a scapito di eleganza stilistica, tenuta e precisione della linea. Il suo Pollione, infatti, è tutto giocato sulla forza, sull’esibizione di un registro acuto ben timbrato e abbastanza squillante: a farne le spese sono la fantasia del fraseggio, la coerenza, la fluidità di una linea frequentemente frammentata da sfoggio di note rafforzate nel peso e, tout court, la musicalità

Alexander Tsymbalyuk è un Oroveso dall’emissione e intonazione eccessivamente problematiche: gran vocione, ma canto sconnesso e affetto da troppe imprecisioni.

Assolvono egregiamente ai loro compiti Veronica Marini, Clotilde, e Giorgi Guliashvili, ex allievo Accademia del Teatro di San Carlo, nei panni di Flavio.

Prima di raccontarvi l’esito della serata, il dovere di cronaca, stavolta non musicale, impone di registrare e censurare il comportamento tenuto da parte del pubblico, atteggiamento che verosimilmente potrebbe aver influito sul deludente risultato musicale della serata.

I fatti e le circostanze. Sala del San Carlo gremita; presenza di folti gruppi di scolaresche di Prato e di Bari (lo scrive il Teatro stesso sulla propria pagina Facebook) che, per l’intera durata dello spettacolo, si producono in un vociare e bisbigliare continuo, udibile e molesto, sia per il pubblico, sia - immaginiamo - per la concentrazione degli artisti; qualche “diversamente giovane” - come si impone di dire oggi - ha poi ripetutamente provato a riprendere alcune scene dell’opera con la videocamera del proprio smartphone. Il personale di sala, dunque, più volte è stato costretto a intervenire: andirivieni in sala, deconcentrazione, rumori nel corso dello spettacolo.

Ad ogni modo, al termine vengono tributati calorosi e prolungati applausi per tutti; qualche isolato, ma ben percepibile, segno di dissenso per Freddie De Tommaso, il direttore d’orchestra Lorenzo Passerini e all’indirizzo dell’équipe registica.

Serata, musicale e non, da archiviare.

Pubblicato in: https://www.apemusicale.it/joomla/it/recensioni/81-opera/opera-2024/15226-napoli-norma-12-03-2024

mercoledì 13 marzo 2024

Aria nuova

 NAPOLI, 7 marzo 2024 - All’Associazione Alessandro Scarlatti devono essere riconosciuti almeno due meriti per un singolo concerto: il primo, aver riportato a Napoli, nella sala del Teatro Mercadante, l’Orchestra del Mozarteum di Salisburgo dopo ben cinquantadue anni di assenza; il secondo, e non secondario, sta nell’aver invitato a Napoli una compagine che risiede al di fuori della mura della città: all’ombra del Vesuvio da troppi anni sono assenti orchestre provenienti da altri Paesi o, più semplicemente, da altre città italiane.

Malgrado la presenza stabile in città dell’eccellente Orchestra del San Carlo, l’assenza prolungata di un confronto - in passato continuo e fecondo per la formazione della coscienza musicale del pubblico e dei musicisti stessi - con complessi custodi di culture musicali, identità sonore e stilistiche diverse da quelle che abitualmente si possono ascoltare a Napoli incomincia a farsi sentire e, soprattutto, a generare qualche mugugno ormai più che comprensibile.

L’Orchestra del Mozarteum, con Luigi Piovano nella duplice veste di violoncellista e direttore, fa ascoltare al Teatro Mercadante una pagina significativa del ‘900 sinfonico, il Concerto per violoncello e orchestra n. 1 in mi bemolle maggiore, op. 107 di Dmitrij Šostakovič. Composto nel 1959 per uno dei miti musicali del secolo scorso, il violoncellista Mstislav Rostropovich, è composizione dai contrasti emotivi giustapposti e irrisolti. A pagine d’intensa drammaticità, quasi stranianti, si contrappongono stilemi di discendenza folcloristica; stagni di cupa meditazione conducono, attraverso percorsi tortuosi, al finale pulsante e venato di ottimismo.

Il violoncello di Luigi Piovano è adeguato interprete di questo composito universo musicale: si dimostra, sin dal deciso Allegretto iniziale, a suo agio nel districarsi tra le insidie di una scrittura strumentale modellata sulla caratteristiche tecniche ed espressive di Rostropovich. Suono intenso, quello di Piovano, ricco di vibrato; un approccio interpretativo che è rivelatore del messaggio di Šostakovič, ingabbiato all’interno dei diktat, anche musicali, imposti dal regime sovietico verso il quale la critica graffiante e il sommesso grido di dolore del compositore russo si snoda attraverso la partitura come un fiume carsico.

Speculare a questa visione - tesa a far palpitare anche ciò che, invece, deve apparire meccanico e prosciugato - è la concertazione, attenta e puntuale, dello stesso Piovano.

L’Orchestra del Mozateum è precisa, dal suono tornito, ha archi che esibiscono un coinvolgente e caldo vibrato. Buoni l’articolazione orchestrale, lo scintillio e l’equilibrio delle sezioni dell’orchestra, il rodaggio fluido dei meccanismi che mettono a fuoco gli innesti, rapidi e concatenati tra loro, delle linee melodiche di Šostakovič e le impalcature dell’impianto armonico della partitura.Quello che si ascolta è uno Šostakovič nevrotico, terso nella cura sonora, al cui interno si agita l’anima ribelle e innovatrice, ma ben temperata (e domata), del corrosivo compositore russo.

Pubblico attento e assorto quello che al termine del Concerto op. 107 tributa sinceri apprezzamenti per il violoncellista/direttore e l’orchestra.

Segue come bis una svolazzante e virtuosistica trascrizione per violoncello e orchestra del celeberrimo Volo del calabrone di Nikolaj Rimskij-Korsakov.

Si approda in Austria, patria dell’Orchestra del Mozarteum, nata a Salisburgo nel 1841 da una costola della Società musicale della Cattedrale e del Mozarteum, per la Sinfonia n. 7 in la maggiore op. 92 di Ludwig van Beethoven, composta tra il 1811 e il 1812.

Qui, a differenza del Concerto per violoncello ascoltato nella prima parte, Piovano e l’Orchestra austriaca lavorano per sottrazione: sonorità fendenti e decise, suono degli archi con poco vibrato, legni e ottoni decisi e imperiosi, ductus musicale stringente e conciso. Molto suggestive le incalzanti dinamiche che Piovano ottiene: si ascoltano scorci sonori e fraseggi che frequentemente esecuzioni di routine condannano a colpevole penombra. Ma nel gioco dei contrasti dinamici è tutta la sinfonia a vibrare per un incessante vitalismo che prende forma e forza in un’articolazione danzante via via più incalzante.

Al termine del vorticoso quarto movimento, Allegro con brio, quando l’estasi della Settima si placa come un esausto derviscio, non possono che seguire meritati applausi calorosi e convinti.

C’è, per fortuna, il tempo di un altro encore, l’ouverture dalle Nozze di Figaro del compositore nume tutelare dell’orchestra di Salisburgo: è un’apertura della folle journée ricca di brio, incisività ed eleganza, staccata con un tempo rapinoso, dipinta da dinamiche variegate e brucianti. Ancora una volta si ringrazia il divino Amadeus per averci reso più piacevole l’esistenza.

Pubblicato in: https://www.apemusicale.it/joomla/it/recensioni/80-concerti-2024/15224-napoli-concerto-piovano-mozarteum-07-03-2024